
Recensione
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di Luca Fontana
Chi nel settimo episodio di «Mission: Impossible» si aspettava un Tom Cruise senza fiato sbagliava alla grande. Perché «Dead Reckoning – Parte Uno» ha tutte le carte in regola per essere il film d’azione dell’anno.
Una precisazione: questa recensione non contiene spoiler. Trovi solo informazioni già note dai trailer rilasciati.
Tom Cruise non si è ancora stancato di «Mission: Impossible». Nemmeno dopo 27 anni. Perché Cruise considera il suo «opus magnum» non ancora terminato. Non a caso infatti «Dead Reckoning», il settimo capitolo del franchise che nel 1996 lo ha consacrato una star degli action movie, è solo la prima parte. La seconda parte sarà nei cinema la prossima estate e sarà la conclusione non solo di «Dead Reckoning», ma dell’intera saga. Almeno a sentire quello che dice il marketing.
E non c’è da stupirsi. Ormai Tom Cruise ha 61 anni portati alla grande. Ovvero, solo quattro anni meno di Harrison Ford, quando nel 2008 interpretò l’anziano archeologo per la (presunta) ultima volta in «Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo». Ecco perché è ancora più sbalorditivo l’impegno a livello fisico che Cruise continua a offrire sullo schermo con incosciente naturalezza. Per fortuna non invano: se «Mission: Impossible - Dead Reckoning – Parte Uno» non è il miglior film della serie, manca il primo posto per un soffio.
Sono ormai passati quasi tre decenni da quando Ethan Hunt (Tom Cruise) ha venduto la sua anima all’IMF, la «Impossible Mission Force». Dopo il giuramento, non solo gli agenti dell’IMF devono portare a termine missioni apparentemente impossibili, ma devono anche «vivere e morire nell’ombra, per chi ci è vicino e per chi non incontreremo mai». Hunt ha fatto questo giuramento quando si trovava con le spalle al muro. Da allora, ha salvato il mondo più di una volta. Ma mai prima d’ora da un nemico come questo: la famigerata Entità.
L’Entità non è un essere umano, ma un’intelligenza artificiale. Presente ovunque e in nessun luogo. Senza dio, senza stato e senza morale. Qual è il suo piano? E chi lo sa. Le sue prossime mosse? Totalmente imprevedibili. L’unica cosa chiara è che è abbastanza potente da annientare l’umanità. Ma chi riuscirà a controllarla, si troverà tra le mani anche la chiave per riscrivere l’ordine mondiale. Le superpotenze mondiali, quindi, sono in gara tra loro non soltanto per impedire la propria distruzione, ma anche per assicurarsi il controllo sul mondo.
Una sola persona ha la missione di distruggere completamente l’Entità (sempre che decida di accettarla): Ethan Hunt.
No, non scoppierà l’apocalisse dei robot. Almeno non nella prima parte. Così tanta sci-fi non sarebbe adatta a un film come «Mission: Impossible». La serie, in fondo, si è sempre contraddistinta per la sua concretezza: concreta come le perfette maschere facciali, come i signori della droga armati di super virus o i terroristi in possesso di esplosivi nucleari. Tuttavia ipotizzare un’intelligenza artificiale che tira le fila sullo sfondo è una mossa azzardata. Soprattutto per «Mission: Impossible».
A dirla tutta, le parti in cui Dead Reckoning tenta la via del distopico sono tra le più deboli del film. Soprattutto a livello di dialoghi. In certi momenti mi ha ricordato un episodio di «Black Mirror» scritto male. La serie di Netflix è nota per le cupe visioni del futuro spaventosamente vicine al nostro presente e quindi paurosamente realistiche. «Dead Reckoning» si incammina per la stessa strada. Ma, tra le altre cose, trovo ridicolo che il regista e sceneggiatore Christopher McQuarrie faccia credere che sia stato ChatGPT, e non lui, a scrivere i dialoghi per l’IA.
«Come, quella cosa ha una coscienza?» chiede un leader di un’organizzazione segreta. «Sì, e manipola le informazioni in modo tale che la verità, così come la conosciamo noi, potrebbe essere in pericolo», gli risponde un altro.
Quasi scoppio a ridere. Ma più avanti c’è anche di meglio:
«L’entità ha hackerato tutti i sistemi di massima sicurezza. Della CIA. Dell’FBI. Della Banca centrale europea. Semplicemente tutto.» – «E cosa ha fatto?» – «Niente, ha solo lasciato delle tracce che evidentemente voleva farci trovare. Voleva...» - «... mandarci un messaggio: tornerò ancora».
Frasi che significano tutto e niente. Assurdo. Non che «Mission: Impossible» sia mai stato candidato all’Oscar per la migliore sceneggiatura. Ma non ricordavo che gli altri film di «Mission: Impossible» fossero di così basso livello. Questo breve momento iniziale, in cui la super-minaccia viene introdotta in un modo così super-ridicolo, mi ha quasi estraniato dal film. Fortunatamente, «Mission: Impossible» ha molto altro da offrire. Soprattutto un Tom Cruise in grande spolvero.
Tom Cruise esegue tutti i suoi stunt personalmente. Ancora oggi. Quella che una volta era una di quelle frasi buttate lì, nel dietro le quinte, tra i materiali bonus del DVD, è diventata il suo marchio di fabbrica. Anzi, quasi l’essenza del suo stesso personaggio. E sicuramente un elemento fisso del marketing di tutti i suoi film della saga «Mission: Impossible». Siamo arrivati addirittura al punto che i trailer IMAX delle sue acrobazie vengono rilasciati ancora prima del trailer del film stesso.
The hype is real.
In passato questa cosa non andava molto giù agli studi. Per queste cose ci sono gli stuntman. Cruise è la star del film. Il volto del franchising. E se gli succedesse qualcosa perché durante l’ennesimo stunt viene investito da un autobus o se, mentre salta sui tetti di Londra, subisce una frattura alla caviglia che può mettere fine alla sua carriera (clicca solo se hai lo stomaco forte)? Ma questo 61enne non si dà tregua. Ormai produttore dei suoi stessi film, preferirebbe licenziare tutti gli stuntman della produzione piuttosto che vedersi vietare di fare i propri stunt.
Può darsi che per Cruise questo tipo di sport estremo sia una questione di ego. O magari solo un hobby. Dal punto di vista cinematografico, tuttavia, dà a questo franchise un qualcosa che molti film d’azione non riescono a trasmettere: la sensazione che il pericolo sia reale. Perché in fondo è reale. Almeno per lui. Per il film, questo significa che la macchina da presa può restare su Cruise durante ogni acrobazia. Ad esempio, quando si lamenta e urla verso la telecamera mentre si lancia con la moto dal bordo di una montagna in un salto che a mezz’aria si trasforma in un base jump. Naturalmente, con il vento contro che gli spiana tutte le rughe del viso.
Come spettatore, non posso fare a meno di conficcare le unghie nella poltrona del cinema per la tensione.
Tutto questo non è solo merito della dipendenza dall’adrenalina di Cruise, ma anche dell’abilità del regista. Da «Rogue Nation» del 2015, quinto capitolo della serie, la star ha scelto di lavorare con Christopher McQuarrie. In realtà, già da «Jack Reacher», film d’azione di Cruise del 2012. Se prima ho criticato McQuarrie per i suoi dialoghi, qui devo proprio elogiarlo. Perché quando si tratta di azione in «Mission: Impossible», lui e Cruise sanno esattamente come rielaborare elementi già noti dai film precedenti e riproporli in una confezione ancora fresca e originale.
Inseguimenti folli attraverso le più belle metropoli europee? Fatto. Stunt pazzeschi con le moto? Ci sono. Scazzottate su set claustrofobici? Fin che vuoi. Carrellate su Tom Cruise che corre? Sarebbe davvero un film «Mission: Impossible» se mancassero?
Ed è qui che McQuarrie mi sorprende sempre con le sue trovate geniali. Con la sua efficienza. Perché, a differenza di altri registi, ricorre raramente ad effetti computerizzati per rendere l’azione più spettacolare di quanto non lo siano in realtà delle persone appese a funi davanti a un green screen. Sto parlando di te, franchise «Fast & Furious». Prova a mettere a confronto le azioni di «Fast & Furious» e quelle dei film «Mission: Impossible». Nell’abbuffata automobilistica di Vin Diesel, più le azioni sono lunghe più sembrano «leggere». Il che è tipico degli stunt creati principalmente al computer: la fisica semplicemente non torna. Anche se la star muscolosa di turno fa le smorfie giuste.
In «Mission: Impossible», invece, si percepisce tutto lo sforzo che c’è dietro ogni salto, ogni sprint e ogni combattimento. Quando la forza di gravità deforma il volto di Cruise durante il base jump, o quando lui cerca disperatamente di mantenere l’equilibrio sul treno in corsa mentre combatte contro l’antagonista, io ci credo davvero. Per il treno, ad esempio, pare abbiano costruito apposta un vero binario. Ed è per questo che le acrobazie sul treno sono altrettanto reali. Le goccioline di sudore. E il presunto pericolo di vita. È questa autenticità che fa scattare il brivido puro anche in presenza di acrobazie che sulla carta sono «piccole».
Cruise e McQuarrie l’hanno capito perfettamente ed è proprio questo che rende «Dead Reckoning» superiore alla maggior parte dei film d’azione che trovi in giro. Una cosa comparabile, anche se più brutale, può essere solo la serie di «John Wick».
Anche nel terzo «Mission: Impossible» girato insieme, Tom Cruise e Christopher McQuarrie confermano di essere una squadra vincente. Soprattutto quando si tratta di azione. O di stunt sempre più al limite.
«Dead Reckoning» è il miglior film della serie? Non direi. Il titolo appartiene a «Fallout», il film immediatamente precedente. Perché «Fallout» è perfetto sotto quasi ogni punto di vista. Dalle acrobazie pazzesche, al casting di Henry Cavill, fino al ritmo forsennato per tutta la durata del film. «Dead Reckoning», invece, è più debole come qualità di sceneggiatura. In particolare, l’Entità misteriosa sarebbe un’idea di IA interessante, ma a livello pratico è realizzata in modo davvero banale. Sotto questo aspetto mi sarei aspettato qualcosa di più brillante.
Poi c’è l’antagonista Gabriel (Esai Morales), comparso improvvisamente. A noi spettatori viene detto all’inizio che questa figura è incredibilmente importante per Ethan, perché è il motivo principale per cui è dovuto entrare nell’IMF. Si arriva persino al punto che solo vedere il volto di Gabriel scatena in Ethan una sorta di disturbo da stress post-traumatico. Dopo sette film. Così, dal nulla. Come no, certo. È chiaro che si è semplicemente scritto un nuovo personaggio. L’effetto è troppo artificioso.
La cosa però non incide più di tanto sull’impressione positiva generale. «Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno» si apprezza per il resto del cast. Il film è girato ottimamente, con moltissimi cambi di scena e azioni realizzate in modo spettacolare. Come dev’essere in un film evento.
«Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno» è nei cinema dal 13 giugno 2023. Durata: 163 minuti. Può essere visto a partire dai 12 anni di età.
Immagine di copertina: Paramount PicturesLa mia zona di comfort consiste in avventure nella natura e sport che mi spingono al limite. Per compensare mi godo anche momenti tranquilli leggendo un libro su intrighi pericolosi e oscuri assassinii di re. Sono un appassionato di colonne sonore dei film e ciò si sposa perfettamente con la mia passione per il cinema. Una cosa che voglio dire da sempre: «Io sono Groot».