Opinione

«Fight Club»: molto più di un’ode alla violenza

Luca Fontana
26.6.2019
Traduzione: Leandra Amato

Vent'anni dopo infrangiamo la prima regola del Fight Club urlata da Brad Pitt ai suoi scagnozzi...e ne parliamo. O meglio: ne parliamo ancora. Quali sono i temi che rendono brillante e senza tempo l’oscura satira di David Fincher?

Un moderno cittadino che possiede tutto, a quanto pare. Eppure soffre di insonnia. Scarica i suoi problemi in un club sotterraneo di arti marziali da lui fondato, da cui si sviluppa un movimento nazionale, che si trasforma poco dopo in una cellula terroristica, che vuole rovesciare l'ordine dominante. Questo è «Fight Club». Noi spettatori guardiamo affascinati. Questo è quello che pensa anche l’utente Retikulum.

Egli definisce l’opera del regista David Fincher, che si basa sull'omonimo romanzo dello scrittore satirico Chuck Palahniuk, come «un vero film da uomini per una serata spettacolare non adatta a femminucce». Non sono d'accordo. Almeno in parte. Il film mostra violenza – molta violenza. Ma non la glorifica. E non è nemmeno antifemminista.

Di cosa si tratta quindi? «Fight Club» è una satira oscura. Ma il film potrebbe anche essere lo studio di un istinto profondo, violento e autodistruttivo. Un istinto alimentato da una rabbia che molti di noi spettatori adulti di oggi abbiamo potuto sentire dannatamente bene durante la nostra adolescenza nel 1999. Questa rabbia non è solo spaventosa, ma anche affascinante.

Prima di continuare a leggere: sì, questo articolo contiene spoiler.

Dalla monotonia quotidiana alla follia consumistica

Ciò che mi affascina di più di «Fight Club» è la concezione del mondo di una società che lavora per raggiungere la felicità. Una visione del mondo che nel corso del film viene scomposta nelle sue singole parti – attraverso la rabbia. Fino ad allora, il film affronta temi provocatori ma mai banali come il fascismo visto come reazione al femminismo, il consumismo o la vita troppo civilizzata.

Lo si può capire dal narratore interpretato da Edward Norton, che viene chiamato «Jack» nella letteratura secondaria e nelle recensioni. È tratto dal romanzo. Lì il narratore cita ripetutamente brani tratti da un giornale: «Sono il midollo allungato di Jack» o «Sono la vita sprecata di Jack» o «Sono la totale mancanza di sorpresa di Jack». E così via.

Edward Norton, alias Jack.
Edward Norton, alias Jack.

Jack è un uomo d'affari. Un venditore di assicurazioni che sembra possedere tutto. Eppure non riesce a trovare la pace. Nemmeno di notte. Da narratore, descrive come la mancanza di sonno sia espressione di un'inquietudine che nasce dalla ricerca di qualcosa che più si avvicina al senso della vita. Caratteristico: colleziona mobili Ikea, che usa per definirsi. Ecco la società che lavora per raggiungere la felicità.

Mi sento colto sul fatto. Il mio appartamento è pieno di cose che non mi servono davvero. Ma le ho comprate comunque. Perché? Una domanda di cui si è già occupato il mio collega Kevin.

  • Retroscena

    Perché compriamo cose che non ci servono?

    di Kevin Hofer

Nell’articolo, Kevin menziona l'edonismo. In altre parole, acquisti che «rafforzano, indeboliscono o sostengono le emozioni a breve termine. Emozioni come la gioia o la soddisfazione». È assolutamente vero nel caso di Jack: misura il suo valore in base alle cose che possiede. Ad esempio un costoso divano di design. Il suo valore materiale non solo simboleggia la prosperità, ma testimonia anche il gusto. Il problema: la sensazione positiva quando si acquista il divano dura solo per un breve periodo di tempo. Per mantenerlo, abbiamo bisogno di più beni. Un circolo vizioso.

Un grande tema in «Fight Club»: la critica alla società consumistica
Un grande tema in «Fight Club»: la critica alla società consumistica

Sto imitando Jack? Forse. Ma spero di no. Prima di potermi confrontare con il mio comportamento consumistico, «Fight Club» lancia il prossimo problema su cui meditare: il femminismo.

Arie da macho e femminismo

Jack cerca conforto in un gruppo di supporto per pazienti con cancro ai testicoli. Non ha il cancro ai testicoli, fa solo finta. Ma essere circondato dalla miseria degli altri gli dà una sensazione sublime. Le sue stesse parole, tra l'altro.

In una di queste scene Jack si trova in un intimo abbraccio con Robert «Bob» Paulson (Meat Loaf). A Bob hanno rimosso i testicoli. Il successivo trattamento ormonale gli ha fatto crescere un seno femminile e lo ha fatto allontanare dalla sua famiglia, per questo Bob è solo. «Siamo ancora uomini», sussurra all'orecchio di Jack tra le lacrime. Comunque, se crediamo alla descrizione di Jack. Dopo tutto, è lui il narratore. Bob potrebbe non essere così piagnucoloso.

Ma il modo in cui noi spettatori riceviamo il racconto della scena, è chiaro: nel mondo di Jack, il femminismo è qualcosa di cui gli uomini veri devono avere paura. La rimozione dei testicoli è un simbolo della mascolinità strappata. Qualche scena dopo arriva Marla Singer (Helena Bonham Carter) – un personaggio femminile molto forte – che dichiara prontamente Jack come il nemico pubblico n. 1.

Jack e Bob in un profondo abbraccio
Jack e Bob in un profondo abbraccio

Lo ammetto: Jack lo racconta a noi spettatori in modo diverso. Il suo odio per Marla deriva principalmente dal fatto che lei visita i gruppi di auto-aiuto solo per sentirsi meglio con se stessa. Proprio come fa lui. Lei è lo specchio nella quale lui non vuole guardare. Ciononostante: è una donna sicura di sé, molto più maschile di quanto non sia mai stato lui, che suscita in lui una rabbia quasi irrazionale.

Non può essere una coincidenza.

Tyler Durden

Poi appare Tyler Durden (Brad Pitt). Tyler è tutto ciò che Jack ha sempre voluto essere. Senza paura. Sicuro di sé. Carismatico. Vende sapone per 20 dollari al pezzo e vive in una villa completamente fatiscente dove non c'è la TV via cavo e dove l'elettricità deve essere staccata quando piove.

Brad Pitt, alias Tyler Durden.
Brad Pitt, alias Tyler Durden.

Quello che noi spettatori impariamo solo alla fine: Tyler Durden è la seconda personalità di Jack. La sua rabbia interiore. La mente di Jack ha creato Tyler semplicemente perché Jack potesse fare o pensare tutto ciò che non avrebbe mai fatto o osato pensare. Così diverso da Jack, Tyler non ha quasi nessun possesso, ma è proprio per questo che è libero: «Le cose che possiedi finiscono per possederti», dice Tyler a Jack dopo circa 30 minuti di film.

Devo pensare di nuovo all'edonismo. Il modo in cui il film lo mette in scena – solo se non possediamo nulla siamo liberi – probabilmente saremmo tutti edonisti. È qui che il film applica la sua critica sociale. Per me va troppo oltre, ma ci fa riflettere. Ed è giusto così.

Poi c'è l'atteggiamento antifemminista di Jack, che delega a Tyler: «Siamo una generazione di uomini cresciuti dalle donne», dice mentre parlano di matrimonio, «Mi chiedo se un’altra donna è veramente la risposta che ci serve!».

Fight Club come via d'uscita dall'insensatezza

Nel Fight Club, creato da Jack e dal suo alter ego fittizio, uomini di tutte le classi sociali si combattono a vicenda.

Fight Club – come lo descrive giustamente il critico cinematografico Owen Butler in Film Inquiry – è mostrato come «una reazione tossica, maschile nei confronti dell'uomo piangente dal quale deve essere scacciato il femminismo». Fight Club è anche «la soddisfazione del bisogno di essere violenti e nichilisti». Un bisogno «causato da una società dei consumi intelligente ma anche piena di sé».

Per me, l'analisi di Butler è accurata perché si adatta come un pugno nell'occhio alla seguente citazione di Tyler Durden:

Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinti che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock star. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando. E ne abbiamo veramente le palle piene!
Tyler Durden

Visto così, il regista David Fincher mette in scena Fight Club come simbolo della rabbia di una generazione ribelle che si crede perduta. Persa nella sua insensatezza. Perché è proprio questo che teme Jack quando, all'inizio del film, si trova con lo sguardo vuoto di fronte alla fotocopiatrice del suo ufficio e cita «Simulacra and Simulation» di Jean Baudrillard. A proposito, questo libro è di grande importanza anche per il film «Matrix», uscito nelle sale cinematografiche nello stesso anno di «Fight Club». Ho già scritto a riguardo.

Con l'insonnia nulla è reale. Tutto è lontano. Tutto è una copia di una copia di una copia.
Jack, il narratore
Lo sguardo vuoto di una generazione perduta.
Lo sguardo vuoto di una generazione perduta.

Lo studioso di media Barry Vacker interpreta nella dichiarazione di Jack la sua rabbia per la perdita di autenticità e individualità. Secondo Vacker, infatti, la società dei consumi non fa altro che nascondere la propria insensatezza in una marea di produzione di massa. Simbolicamente, le copie delle copie fatte da Jack. Con il suo caffè Starbucks sulla copertura della fotocopiatrice.

Se me lo chiedi, Fight Club non è altro che il veicolo con cui i membri trovano la loro via d'uscita da questa inutilità. Nell’emozione violenta, tra adrenalina, sangue e sudore, trovano la via del ritorno all'autenticità che pensano di aver perso nella vita. Qui la loro rabbia per la società – per le persone – si manifesta sotto forma di violenza, percosse e risse.

Ma non è qui che finisce lo studio di Fincher sulla rabbia.

Progetto Mayhem e fascismo

Jack e il suo alter ego fittizio fondano il Progetto Mayhem con lo scopo di far saltare in aria le sedi centrali di tutte le società di carte di credito. Questo porterebbe i debiti della gente a «zero». Un atto di liberazione dalla società materialistica e consumistica che controlla la vita. Un nuovo inizio per tutti. Una seconda occasione.

Penso sia molto ironico.

Infatti, all'inizio è Tyler che mette in guardia Jack dal possesso che minaccia di controllarlo, mentre ora è la sua rabbia che prende il sopravvento. Né Jack né Tyler la vedono arrivare. Ma Project Mayhem non è altro che la forma esagerata del Fight Club, che non è più sufficiente a soddisfare il bisogno di significato di Jack e soprattutto di Tyler. Fino al punto in cui le parole di Tyler Durden degenerano in chiacchiere regolari e ultimative, dove la tendenziosità e il fraseggio sono all'ordine del giorno.

Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la grande guerra né la grande depressione. La nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita.
Tyler Durden

Tuttavia, Tyler tocca un tasto dolente a cui la gente reagisce: cioè seguire quello che abbaia più forte contro l'ordine prevalente, presumibilmente fallito. Anche storicamente. Ad esempio durante la seconda guerra mondiale, quando milioni di persone hanno seguito un leader. Anche a causa di questo, il fascismo viene spesso menzionato quando si parla di «Fight Club». Roger Ebert, uno dei più importanti critici cinematografici degli Stati Uniti, ha addirittura definito il film «apertamente fascista».

In realtà ci sono dei paralleli: gli uomini che partecipano al progetto si sottopongono ad un ordine rigoroso. A capo c'è un leader – in «Fight Club» è Tyler Durden – che viene adorato o addirittura glorificato. Ha tratti fascisti. In modo quasi rituale, i membri rinunciano al loro nome e quindi alla loro identità. Entrano nella folla anonima per far parte del quadro generale.

I membri sono visti come liberatori.

Project Mayhem sembra agire come una piccola cellula terroristica
Project Mayhem sembra agire come una piccola cellula terroristica

In realtà, sono terroristi moderni. Sono disposti a sacrificare altre vite e le proprie per uno scopo superiore. Perché con la morte, riavranno il loro nome e la loro identità. Un rituale che dà finalmente alla loro esistenza quel senso che non avevano mai trovato prima d'ora nella vita – anche se solo nella morte.

Un membro del Progetto Mayhem ha un nome nella morte. Si chiama Robert Paulson.
Membro del Progetto Mayhem

Questo è il loro riscatto.

Il fascino della violenza e dell'autoriflessione

Quindi, «Fight Club»: di cosa si tratta alla fine? È davvero solo un «vero film per soli uomini» che esalta la violenza ed è antifemminista?

La mia opinione: no! È molto più di questo. Per me personalmente si tratta in particolare di uno studio sulla rabbia e il suo effetto tossico e distruttivo sulle persone. Tossico perché il pensiero di Tyler Durden si diffonde come un veleno attraverso il pensiero di Jack e più tardi si trasforma in un movimento nazionale. Distruttivo, perché distrugge intere esistenze e fa crollare anche grattacieli.

Anche il regista Fincher si distingue da Tyler. Così puramente inscenato. Infatti, quando Jack si rende conto che Tyler è l'estensione distruttiva del suo Io, è come se noi spettatori trovassimo il nostro Tyler Durden interiore. Abbiamo seguito la trama fino a quel punto, sperando segretamente che Tyler portasse avanti il suo piano. Ma poi diventiamo consapevoli grazie all'intuizione di Jack: Tyler è il male. Anche la sua rabbia.

Jack elimina l'alter ego Tyler dalla sua testa con un colpo alla guancia, ma il Project Mayhem è inarrestabile. I grattacieli degli istituti di carte di credito crollano tra le esplosioni. Per noi spettatori un appello, un promemoria per fermare il nostro Tyler Durden – la nostra rabbia – prima che sia troppo tardi anche per noi.

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La mia zona di comfort consiste in avventure nella natura e sport che mi spingono al limite. Per compensare mi godo anche momenti tranquilli leggendo un libro su intrighi pericolosi e oscuri assassinii di re. Sono un appassionato di colonne sonore dei film e ciò si sposa perfettamente con la mia passione per il cinema. Una cosa che voglio dire da sempre: «Io sono Groot». 

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